martedì 14 giugno 2011

CLANDESTINO, ESSERE UMANO



Due di Giugno, festa della Repubblica. Potrei passarla tranquillamente a casa, magari chiamando qualche amico a pranzo. Invece mi trovo nell’alto Lazio, nel cuore del Parco Regionale dei Monti Navegna e Cervia, a sgambare con la mia mountain-bike su per salite capaci di scoraggiare i bikers più ardimentosi. A prevenire il rischio-ozio in cui si può facilmente incorrere in un'occasione come questa, sta un’idea che cullo da tempo e che, mese dopo mese, va prendendo forma: un Cammino sulle orme di San Benedetto da Norcia. Un percorso da Norcia a Montecassino per ripercorre idealmente la vicenda umana e spirituale del giovane nursino: prima eremita, poi abate a Subiaco, infine Santo a Montecassino, in quell’abbazia dove la sua Regula, pilastro del monachesimo occidentale, trova compimento. Il Cammino è lungo e va ben preparato; ad uno studio accurato delle carte e delle immagini da satellite segue la parte più importante, la ricognizione sul campo. Recarsi sul posto: per valutare con le proprie gambe le curve altimetriche e per dedicare il giusto tempo a prendere contatti per le accoglienze, raccogliere informazioni e sensibilizzare sul progetto. Affronto le tappe a tre-quattro per volta; poi ricomincia il lavoro di altri mesi per preparare le tappe successive. E così che quel giorno giungo a Castel di Tora, uno dei miei punti-tappa: un delizioso paesino sulle rive del lago del Turano, circondato da uno degli scenari naturali più belli di tutto il Centro Italia. Un bacino artificiale dal colore turchese lungo quattordici chilometri che, se non fosse per le ginestre fiorite, si penserebbe d’essere in Svizzera. Arrivo al borgo sul far della sera, e come sempre non ho nulla di prenotato. Credo che l’essere pellegrino voglia anche dire fidarsi della Provvidenza: difatti, da quando compio pellegrinaggi, un posto per dormire l’ho quasi sempre trovato. In ogni caso mi porto dietro una tendina di due chilogrammi, giusto in caso di necessità. Poco prima del borgo, mentre mi fermo per bere ad una fontana, mi si avvicina un ragazzo scuro di carnagione. “Where are you from?” Io stavo per chiedergli lo stesso: “Di dove sei”? “Bangladesh”, mi risponde. Cerco di spiegargli che sto cercando un agriturismo “Bed & Breakfast…do you know?”. Ma il ragazzo capisce solo breakfast e pensa che io abbia fame. Poco più distante una freccia indica un agriturismo, su per una salita dalla pendenza di tutto rispetto. Ci incamminiamo insieme per la stessa strada. Scambiamo qualche parola, cerco di capire cosa ci faccia lì uno del Bangladesh, ma il ragazzo parla poco l’inglese e non c’è molto il modo di comunicare. Condurre la bici carica per una salita del genere è impresa ardua; ma senza che io gli chieda nulla, comincia ad aiutarmi a spingere. Arriviamo finalmente all’agriturismo. Si presenta: “Masud*”. From Bangladesh, tiene a precisare; ed io mi presento a mia volta. Prima ancora di avere il tempo di capire se esista un proprietario di quel luogo, mi trovo davanti ad un variegato gruppo di ragazzi di varie etnie, sì e no ventenni, impegnati in un’appassionante sfida di pallone. Bangladesh contro il resto del mondo, invero costituito da rappresentanti di Nigeria, Mali e Somalia. Al tre a due per Nigeria & Co. la partita si interrompe e vengono tutti a salutarmi. Si fa avanti un ragazzone di colore, questo per fortuna l’inglese lo parla discretamente: “Benjamin, from Nigeria” E mi chiarisce la situazione: sono in ventiquattro, sbarcati venticinque giorni prima a Lampedusa: in sedici provengono dal Bangladesh; sei, di cui due donne, sono della Nigeria; un ragazzo è del Mali ed un altro è della Somalia. Sbarcati, caricati su un pullman, e portati lì, “in the middle of nowhere”, come dice. Assortiti a caso. Fortunati quelli del Bangladesh, capitati in un bel gruppo di connazionali, così pure il gruppetto di nigeriani. E’ andata peggio al somalo ed al ragazzo del Mali, che non hanno nessuno che parli la loro lingua. I due fanno un po’ coppia a sé, riuscendo fortunatamente a comunicare tra di loro in arabo. Tutti vogliono stringermi la mano, forse per ringraziarmi di essere andato a trovarli. Le camere danno su un bel prato affacciato sul borgo sottostante e, più distante, sulle ultimi propaggini del lago del Turano, la vista è bellissima. Penso di fermarmi lì per la notte e chiedo di poter piantare la tenda; tuttavia non sono sicuro che abbiano capito le mie intenzioni perché non ne ricavo altro che un comune sguardo interdetto. Estraggo allora dalle mie sacche la tendina, e lo spettacolo ha inizio: mi fanno tutti cerchio intorno, ammirati per quella novità. La signora nigeriana è scettica: “You want to sleep inside there?” Sì, ci dormo dentro. E mi chiede di aprirla per vedere come sia fatta all’interno. E’ preoccupata per me: “You have cold”, teme che abbia freddo, e mi invita a fermarmi a dormire con loro per la notte. Ringrazio, dico che ormai l’ho montata e che non avrò freddo, estraendo lo sleeping bag, il sacco a pelo. Le mostro come ci si possa infilare dentro, sollevando l’ilarità generale. La signora non ne è per niente convinta e mi porta una coperta, che accetto per non deluderla. Poi si ritirano tutti nelle casette tranne Asad, il somalo. Mi invita a farmi una doccia dentro la sua casetta e mi presta un paio di ciabatte. L’acqua tiepida mi è particolarmente gradita, dopo un intero pomeriggio di pioggia. Poi estraggo il fornellino e mi metto a cucinare. Il ragazzo insiste perchè entri; lo ringrazio per la cortesia ma non voglio arrecare il minimo disturbo. Allora si ferma a farmi compagnia mentre mi preparo un buon risotto. E mi racconta brevemente la sua vita: ventuno anni, una famiglia sterminata dalla guerra civile; tre tentativi di venire in Italia, la galera, le percosse e violenze d’ogni tipo subite in Libia. Mi mostra le cicatrici, mi viene la pelle d’oca. “I want to live here”, è qui che vuole vivere. Poco più che un bambino approdato nel paese delle favole, giovane ed indifeso com'è, muove a tenerezza. Non gli sembra vero che, da qualche parte nel mondo, esista la pace. Non chiede altro che un lavoro e di fermarsi a vivere in Italia. No documents…nessuno ha i documenti. Rifugiati politici temporanei, in attesa di chiarimento sul loro status. Che è di transizione. Per il momento, esseri umani parcheggiati in mezzo al nowhere, aspettando che succeda qualcosa. How long? Per quanto, domando. Who knows…forse cinque o sei mesi. Torna Benjamin, un passato da boxeur, prima in Nigeria e poi in Libia, portandomi un tè caldo. I suoi successi da peso medio gli hanno permesso di mettere da parte una discreta somma di denaro, che gli è servita per affrontare il viaggio in condizioni meno disumane di quelle in cui si sono trovati i suoi compagni. How much, quanto costa il viaggio per venire dalla Libia in Italia? Chiedo. It depends…dipende dalle possibilità economiche: non meno di due-tremila euro per essere abbastanza sicuro di arrivare. Se paghi meno, rischi la vita su carrette piene all’inverosimile. Il suo sogno è di continuare la carriera di boxeur in Italia, mi chiede che possibilità ci siano. Rispondo che non so. Ad un certo momento, un pensiero lo illumina tutto: “Where is Roma? Da che parte è Roma? Mentre gli indico la direzione della città, estraggo dallo zaino la mia mappa al 200.000. In un istante mi ritrovo ad essere il prestigiatore che, nel momento di massima attenzione degli spettatori, fa comparire il coniglio dal cilindro. Anche gli altri escono dalle casette: vogliono sapere in che parte d’Italia si trovino esattamente. Sanno che Roma non è lontana, qualcuno gliel’avrà detto. Forse alla scuola allestita nel comune dove vanno due ore al giorno per imparare i rudimenti di italiano. Mi chiedono come fare per raggiungerla. I will go to Roma…andrò a Roma a cercarmi un lavoro, esulta un ragazzo del Bangladesh, per poi aggiungere: when i have the document. Senza documenti, non possono andare in giro liberamente, né possono trovarsi un lavoro. Benjamin è impaziente: I will go to Roma on Sunday…vuole andarci subito, non gli importa niente di non avere i documenti. Tanta risolutezza è accolta entusiasticamente dalla sua compagna, quella della coperta, che esulta: Wow! I will see the Papa! Il sogno di una vita, andare a Roma per vedere il papa, finalmente si può realizzare. Faccio loro osservare che ad andare in giro senza documenti si possono passare dei guai seri. Ma chi li tiene più, e come dar loro torto? Confesso che li ho messi sulla strada per realizzare la loro marachella. Che è poco più di quella di un adolescente che bigia la scuola in barba alla mamma. Un calvario di mesi, a volte anni, di tribolazioni, persecuzioni, violenze di ogni genere, scappando chi dalla guerra, chi dalla miseria, chi da entrambe. Odiati in terre straniere ed ostili. Senza poter contare su nessuno, sempre in fuga, sempre clandestini. Un viaggio della speranza con un’idea fissa in testa: l’Europa. Che diventa la terra di tutti i loro sogni; il ripostiglio di tutte le loro speranze. Finendo per identificarla con il più alto desiderio di qualsiasi essere umano: ciò per cui vale la pena combattere, soffrire e morire. Un sogno chiamato Libertà.

Prima di gridare al clandestino, all’invasione nera, all’extracomunitario pericoloso per la società, pensaci bene. E’ un essere umano come te in cerca di quei diritti che tu hai avuto garantiti fin dalla nascita. Prima di lamentarti del Paese in cui vivi e sei nato, pensaci bene. C’è stato chi ha dato la vita anche per te, per garantirti quei diritti che ora ti sembrano scontati. Onorane la memoria e ringrazia Dio per averti dato tutto questo.

Auguro a tutti di poter vivere esperienze come questa.
Appassionatamente,
Simone

(* per tutelare il giusto diritto all’anonimato delle persone che cito, ho deciso di dare loro nomi di fantasia)